Tu. Ed io, che ballo da sola.

Ciao,

lo sai che ho quasi trent’anni?

Ultimamente mangio spesso le mele e l’altro giorno in ufficio mi sono macchiata. Ma per fortuna sui vestiti sintetici non si vede.

Ogni volta che mangio le mele mi vengono in mente quelle che mangiavi tu. E poi le sbucciavi per me. E le vedo le tue mani, e le fette a forma di fiore sulla salvietta. Che poi non l’hai mai imparato che la salvietta si appiccica alla mela e a me fa schifo.

E poi oggi ho fatto i carciofi. Lo sai che non ho imparato nulla, e lo sai che ce l’ho con te! Ti chiedevo come li facevi, dicevi che ci mettevi poco olio, ma non può essere vero. Io ci metto poco olio e non vengono come i tuoi.

Io non li so fare i carciofi. Non so cucinare come facevi tu, anche se ultimamente di cucinare non ti andava proprio.

Ieri ho riletto Calvino. È l’unico che mi entra nel cuore. Ti ricordi quando studiavo? Passavo ore sui libri. E poi piangevo perché pensavo che non ce la facevo. E invece ce la facevo, sempre. E sono ancora convinta che se tu non avessi pregato io non ce l’avrei fatta. Ti chiedevo di pregare e poi pensavo di riuscire a studiare grazie alle tue preghiere. Alla fine ci siamo laureate in due: io, te e le preghiere. Lo so, lo so. Ti fa incazzare che non preghi ma non potevo essere la tue copia perfetta.

Mi dicono che cammino come te. A dire il vero tu avevi un portamento elegante. Io sono goffa, spesso grezza. Compenso con le parole. Ma la sai una cosa? A volte dico delle parole che non so cosa vogliano dire. Però tutti pensano che sia molto intelligente. Anche tu lo pensavi, e me lo ricordo che mi guardavi con ammirazione.

Ah, l’ho guardato Sanremo. E sai che quest’anno c’ho scritto un articolo. Te lo ricordi quando mi sono diplomata che non hanno messo la mia foto sul giornale. Ormai il giornale non basta più, ci sono un sacco di persone che leggono le cose che scrivo. Appena becco le tue amiche glie lo dico. Ti piacerebbero le cose che scrivo. Io lo so che leggeresti tutto, che poi non capiresti, ma mica bisogna capirsi per amarsi, no?

Ah, poi ti volevo dire che non ci vado più in America. Adesso voglio andare in Giappone, anche perché qui che cosa ci faccio? No, io non ci riesco a fare come te. Io di vivere per gli altri non sono capace. Io sono la mia navicella e penso ancora che nessuno si aspetti che io rimanga. Mi dispiace di essermene andata alla fine. È l’unico rimorso che ho.

Di non esserci stata. E ti ringrazio, per avermi usato la cortesia di attendere il ritorno.

Quando sono arrivata lo sapevo che dovevamo fare presto, ma così presto non credevo. È stato come sederci e bere l’ultimo: io, e te. Solo che io, a dirti il vero, non volevo smettere di ordinare mai. Ah, aspetta che sto bruciando i carciofi.

Comunque ti dicevo all’inizio,che ho quasi trent’anni. Passano le stagioni mia cara, anche se credo che del tempo che passa a te interessi davvero poco.

Comunque qui fa freddo. Porto spesso la sciarpa, mi scaldo il collo. Non li ho più guardati i tuoi foulard. Prima o poi lo farò, ma sarà come guardarsi dentro. E te lo confesso, che non sono pronta.

Te lo ricordi quando ballavi? Lo sai che sono una capra anche in quello. A volte mi piacerebbe andare in balera, perché penso che dovrei imparare a farmi portare. Io non so ballare in due. Io ballo da sola. Come quel film che c’è la tipa che perde la verginità nella vigna. È sempre il mio preferito quel film, e non mi chiedere chi sia il regista perché non me lo ricordo.

Comunque pensavo a quanto ballavi. Dio, com’eri bella. Ti guardo tutte le mattine quando esco di casa. Ti porto al dito e credo di averti dentro. Ti sei addormentata sul mio cuore. Chissà se la tua anima ha il colore dei tuo occhi. Te l’ho detto che eri bella, amore?

Ecco, appunto l’amore.

Questa settimana, dopo Sanremo, c’è stato San Valentino. Allora ti volevo raccontare una cosa.

Un giorno un signore sulla cinquantina con la barba corta e gli occhiali tondi mi ha incontrata in un giardino. Questo tizio fa il professore ed è argentino. È il classico tipo che nel tempo libero coltiva rose bianche. Comunque, il tipo, a un certo punto mi dice: “ma tu, ti sei mai innamorata?”.

Sono rimasta in silenzio perché mi trovavo nel mezzo di un giardino d’inverno.

E poi ho risposto di no. Ma lo sai che non è vero. Mi sono innamorata due volte.

Di un amore molto diverso e altrettanto intenso.

Però poi, dopo che ho detto di no, mi è venuto da piangere forte, fortissimo. E lo sai come mi succede, che mi si riempiono gli occhi di acqua.

E allora ho alzato gli occhi perché non cadessero le lacrime e all’improvviso mi è venuto in mente, che Io. Ho amato te.

Mi manchi tanto. Adesso mangio i carciofi. Tu continua pure a dormirmi sul cuore.

Ciao Amore.

Io. Coelho, il punk e i supereroi.

Io. sono una persona logorroica.

Parlo in continuazione, di tutto.

Eppure non parlo di me.

Io dico poco spesso ciò che penso, e poi, quando lo faccio, sparo nell’Universo con violenza.

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Questo blog nasce qualche anno fa, quando io vivevo a Ny.

Nasce a Chinatown, in una viuzza sporchissima, dove la gente suona sui clacson e li copre con la melodia delle corde. Nasce con le anatre appese ai ganci di acciaio.

Nasce quando io sento di voler raccontare. 

 

Ma poi io torno, ed inizia una nuova era. Ma poi io cambio, e le cose cambiano, ed arriviamo ad ora, che tutto cambia. 

Nell’ultima settimana mi avete chiesto come sto.
(E il mio amico Luca mi ha chiesto se sono diventata famosa e ricca, ma soprattutto ricca.)

L’avete fatto in tanti, ed io non ho avuto il tempo di rispondere, non come avrei voluto,  non raccontandovi come si sta ad essere felici, nelle mie scarpe!

E allora ve lo scrivo. Condivido le bollicine, i mal di testa, la stanchezza, l’ansia da prestazione e la gioia. Perché io di me non parlo, ma ogni tanto mi trasformo in parole (ed è il super-potere che vorrei, se fossi un super-eroe).

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Mercoledì mattina alle 9 sono andata a cambiare lavoro.

Sono entrata in un open space semi-vuoto, dove una ragazza coi capelli sfumati sorseggiava caffè da un bicchiere di plastica.

Muoveva lo zucchero con la palettina, mentre io avrei dato il mio regno per una faccia amica.

Dieci minuti dopo l’open space era brulicante, ed io ero ancora gelata, immobile come lo zucchero che non trova una palettina. Avevo portato quaranta frittelle giganti straripanti di crema, perché l’inserimento in un gruppo passa spesso attraverso il picco glicemico.

Da lì, da quel momento, è cambiato tutto, e poi forse, non è cambiato niente.

Io, sto realizzando ciò che sapevo e dovevo capire, perché l’ho sempre saputo, che

quello che voglio, è mettere in linea parole!

E penso che Coelho non sia un coglione, e quella storia che il cuore conosce tutte le cose, non sia una cazzata. 

E allora, quando un ragazzo dai capelli rossicci mi ha rassicurata, io sono tornata a respirare, perché sapevo esattamente di stare facendo l’unica cosa che per me è possibile.

Io scrivo, e sappiatelo, che scrivere, non è mica facile!

Non è per nulla facile quando la tua passione diventa il tuo lavoro. È una cosa stranissima in realtà, perché ciò che non aveva regole, il tuo flow, adesso ne ha (e forse per questo di domenica mattina, con i capelli bagnati, nel piumone, torni a scrivere un diario, sapendo che domani avrai il raffreddore).

Mi sono seduta al cospetto di un uomo con la penna in mano. Ho visto grande rispetto nel segnare col blu il mio lavoro. Ho retto lo sguardo, e difeso l’anima che c’avevo messo.

Ho pubblicato. Una cosa l’ho pubblicata.

E mi sono chiesta se contino di più il culo o il giudizio, la grammatica o il coraggio.

E poi mi sono risposta che io ho sempre puntato sul giudizio, perché a culo siamo messi male.

E poi mi sono urlata che ci vuole coraggio, e che la grammatica aiuta.

Ci vuole un sacco di coraggio ad avere coraggio.

Ho anche ascoltato un gruppo punk, e scoperto che ci vogliono solo tre accordi.

E allora credo che farò così: quando avrò paura tornerò ai tre accordi.

Perché quando le cose belle si realizzano, noi siamo portati ad averne paura.

E invece io me la voglio godere. 

Tre accordi: è tutto tremendamente semplice, se riesci a stare leggero, nel tuo vestito migliore.

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Io. Un inno all’albicocca.

Scrivo per segnalarvi un importante cambio di rotta che riguarda Storiediunebrea.

Penserete che io sia stata assunta da Vogue e mi trasferisca a Parigi. O che visti i miei trent’anni io  abbia iniziato ad avere rapporti sessuali completi a cadenza costante (che già ogni sei mesi sarebbe una manna dal cielo).

Oppure penserete che io sia incinta, perché sono biologicamente perfetta per la procreazione.

E invece no, è l’ 1:15 del mattino e io non riesco a dormire.

Ieri ho parlato con Elena (tecnicamente ci siamo scritte), un’amica che vive in Francia da anni e che amava sorprendermi mostrandomi all’improvviso il suo piercing alla lingua. Ricordo Elena per la “vacanza” Brit e per l’insorgere improvviso di quella pallina di acciaio.

Ecco, ieri Elena mi scrive, e segna, senza saperlo, il passaggio di un’era. Con grande innocenza, mi segnala che i francesi non si rivolgono all’organo genitale femminile con l’epiteto a me tanto caro (LA FIGUE) ma con il lemma (che credo voglia dire parola in termini tecnici) di ABRICOT.

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All’11 e 22 sento il bisogno di dirvi che la figue, da oggi, si chiamerà abricot.

E voglio anche dirvi, mio vaginodromo di lettrici, che dopo aver ricevuto la corretta traduzione di figue, ho pensato tantissimo a ció che significa essere portatrici sane di abricot.

Scadró sicuramente nel banale, machiassenefrega. Le prenderete come poetiche cadute di stile o come un riassunto di cose che già sapete e che, aimè non potete sfuggire.

Io credo che l’abricot, nel caso in cui fosse dotata di vita propria, ci sputerebbe in un occhio. La sua natura di oggetto peloso viene ripetutamente messa in discussione attraverso il processo di deforestazione. A intervalli regolari, la aggrediamo, estirpando la naturale protezione pilifera che si converrebbe lasciare invariata. Io, se fossi lei, mi infastidirei alquanto ad essere cosparsa di cera bollente e poi tirata a destra e a manca mentre una semi-sconosciuta operatrice di bellezza ti mette le mani dove pensavi sarebbero finite quelle del tuo principe azzurro.

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Spesso (nel mio caso poco spesso) costringiamo l’abricot a ricevere ospiti in casa. Ma mica li ha invitati lei. Tendenzialmente gli ospiti sono graditi per un periodo di tempo limitato. Nel caso in cui se ne vadano subito, la povera figue si sentirà oltraggiata perchè in risposta a una calorosa accoglienza non otterrà che un prematuro abbandono.

Caso peggiore è quello in cui l’abricot venga sottoposta a permanenze di entitá temporale importante.

In quel caso io la immagino all’angolo del ring, sudata e provata che urla ‘NON FA MALE’!!! con tanto di Brigitte Nielsen che si alza agitata tra le prime file del pubblico.

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L’abricot è poi particolarmente delicata e un regime d’uso importante, corrisponde spesso ad alterazioni delle naturali componenti chimico biologiche caratterizzanti il frutto dell’AMMORE.

(DOVEROSA PRECISAZIONE: meglio prendersi i bacilli trombando che sedendosi a bordo piscina!!!)

Ad ogni modo, l’eventuale esposizione alla patologia, conseguente all’espletazione di bisogni primordiali, costituisce, per la sottoscritta, un forte deterrente alla ricerca del piacere carnale.

Pensate che la mia amica Melania, dopo un weekend in mia compagnia, mi ha confessato di non essere riuscita a limonare per paura di prendersi il bacillococcus tremendus.

L’abricot, povera, è poi esposta allo scherno degli amici homosexuelles, che disprezzando l’oggetto e la sua fisiologica umidità, la chiamano LA PIAGA.

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Ora, è l’1 e 40 del mattino, e la tosse non mi fa dormire. Sono allo stremo delle forze e vi giuro che la tracheite acuta è peggio di Gigi D’Alessio alle 8 del mattino. Quindi, se permettete, con lo stralcio di energie che mi rimangono,mi appellerei al quinto emendamento e, sempre se lo permettete, mi vorrei rivolgere ai fruitori dell’OGF.

(Ndr: OFG = organo genitale femminile).

UOMINI, CAZZO!

Voi che passate un sacco di tempo a spinzettarvi le sopracciglia, voi che vivete in funzione del contorno occhi, voi, che la massima aspirazione è calcio mamma e rutto libero.

Voi, abbiate pietà per colei che i francesi chiamano abricot.

Abbiate pietà nel caso in cui la deforestazione non avvenga in maniera sistematica e ricordate che, come diceva mia nonna ‘tira più un pelo di abricot…’

Abbiate pietà se di fronte alla vecchia e poco cara eiaculazione precoce, a noi ci girano un po’ i coglioni, ma soprattutto, abbiate pietà quando esanimi chiediamo il pit stop! Accogliete di buon grado i metodi alternativi e ringraziate per l’ospitalità volgendovi all’uscio.

Non lamentatevi quando vi chiediamo di soccombere all’uso di precauzioni, perché, come dice la mia ginecologa femminista VOI SPARITE, ma i problemi restano.

E poi, ultimo ma non meno importante: tornate a osannarla un po’, questa povera vagina.

Perché ci piacciono molto le vostre barbe e i pettorali che scolpite con severa dedizione, ma ogni tanto, vedere il volto di uomo illuminarsi di fronte al frutto della passione, ci fa venire voglia di essere donne (che poi, oltre alla figue c’è di più)!

Ringrazio chiunque sia arrivato alla fine, ed in particolare ringrazio chi voglia esercitarsi sull’adorazione di cui all’ultimo punto della presente disserzione.

Ma soprattutto ringrazio Elena che con la storia dell’abricot ha aperto nuove frontiere a questo blog, davvero un grande passo per l’umanità!

(Sono sicura che il caro e vecchio Neil sentitamente ringrazia)

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Vaginodromo, I wish you luck in the sex jungle! 

Io. L’ho guardata da vicino.

E quindi poi succede che all’improvviso lei si siede.

Affonda in  una poltrona di un ristorante un po’ poco chic, con quel gusto di tannini nell’aria, che uno si aspetterebbe di sentire in bocca.

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Qualcuno, un ragazzo del Messico, con la faccia che parla di origini lontane, un ragazzo che per lei è solo qualcuno, le versa del vino.

Lei di vino non ne sa nulla. Però lo beve.

Una prima boccata ingorda, come quelle di chi cerca l’amore, in un bicchiere di vino.

Poi la seconda, meno ingorda, più pacata, come quelle di chi dell’amore se n’è un po’ stufato, senza esser disilluso.

E intanto lei affonda, in quella poltrona di pelle che si scalda. E si scalda.

Affonda anche nel vino, che si prende la corteccia e distrugge barriere. E così, sorso dopo sorso, lei diventa diversa, indifesa e permeabile: una pianta, che scambia ossigeno.

E chi la guarda la vede in attesa. Ma lei sorride, perché a volte, la terza boccata, segna la fine di ogni attesa. Perché a volte, vale la pena di scegliere di non aspettare più.

E così, nel ristorante del tannino, lei rimane immobile a riguardare la sua giornata, l’ultimo anno, la vita.

E si ritrova a sorridere, come uno spettatore inerme, rassegnato ad un copione karmico.

E così, ebbra, lascia che esca l’ossigeno , mentre attende qualcosa: un altro bicchiere di vino.

Trascorre così, in silenzio, il tempo di una sera.

La poltrona che è casa, il vino che diventa ossigeno. Il bicchiere, uno specchio.

E lei, immobile, si ritrova a vagare.

Poi si alza.

Porta i tacchi.

E sugli spilli, camminando sulle uova, cerca il suo equilibrio.

E le viene da ridere, ma forse sarà il vino o l’assenza di ossigeno.

E ricomincia a danzare, di quella danza del calabrone che non sa dove andare.

Eppure lei, con la bocca piena, del gusto acido delle foglie di pomodoro, sta andando.

E ride ancora, al pensiero di vagare, perché pensava di non saperlo fare.

 

 

IO. OyLà! One year later

Ecco. Io c’ho provato. C’ho provato un TOT di volte. Ma qualcosa andava storto.

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E così per un anno IO. Non ho scritto.

Io non ho scritto più, io non ho più scritto.

E allora diciamo che ci provo perchè la mia amica Alice mi ha detto che può essere bello anche così, anche se non ho storie eccezionali, anche se c’è stata parecchia nebbia, più nebbia che vodka.

Diciamo che non ho più scritto perchè sono stata occupata a fare altro. Forse a sopravvivere, forse a tentare davvero di vivere. Nel senso che, e permettetemi il flusso di coscienza, ho tentato di fare qualcosa di concreto, come si conviene a una quasi trentenne.

Il risultato è che ad oggi ho un lavoro, ed un’auto. Tra l’altro l’auto è anche bella perchè è cabrio (è stata una donazione, da registrarsi tra gli spaventosi colpi di culo).

Quello che c’è stato in mezzo, tra quando scrivevo e adesso che ho un’auto, è più o meno così riassumibile:

GENNAIO

A gennaio vivo la paura di affrontare cose nuove, che adesso mi sembra lontana, e che eppur c’è stata. Sento il freddo e le sigarette in terrazza a guardare i monti, chiedendomi che cosa farò. Faccio ripetuti tentativi di yoga e mi appello al Buddismo non ottenendo grossi risultati. CAPISCO CHE QUALCOSA DEVE CAMBIARE. MA COSA, BENE, ANCORA NON LO SO.

FEBBRAIO

Per motivi di lavoro, perché finalmente trovo un lavoro, mi ritrovo a Murano. Un’isola, d’inverno, al freddo. Passo intere serate a guardare il faro. Ripenso al rumore di NY, CAPISCO CHE TUTTO PUO’ SUCCEDERE. Se da NY sono finita a Murano, forse puo’ essere vero il contrario.

MARZO

Inizio a lavorare seriamente. E vi confesso che NON C’HO CAPITO UN CAZZO!

APRILE

Welcome primavera, le giornate si allungano. Inizio a pensare all’idea di andare a vivere da sola. Vengo presa da una NUOVA serie di ipocondrie ma mi salvano i ponti lunghi. Provo la gioia del lavoratore medio: CAPISCO CHE ASPETTO IL PONTE.

MAGGIO

Le allergie, gli attacchi d’asma. L’ansia e le apnee notturne. CAPISCO CHE E’ MEGLIO SMETTERE DI FUMARE.

GIUGNO

Il mese dei ricordi, del distacco, è passato un anno da quando le cose sono veramente cambiate, da quando il mio tutto è passato alla stanza accanto. Giugno, il mese dei fiori, del primo caldo e dei matrimoni. Giugno, CAPISCO CHE AMO IL CALDO DAVVERO, E CHE E’ TROPPO PRESTO PER SMETTERE DI FUMARE.

LUGLIO

Compio 29 anni e festeggio. Festeggio  con i miei amici. Il barista è un figo un po’ hipster, la musica buona, un sacco di lucine, la torta gigante col pan di spagna imbevuto di liquore. L’uva tagliata a metà e la gelatina dolce, si scioglie con l’alcol. CAPISCO CHE NON HO PIU’ L’ETA’. E’ ASSOLUTAMENTE NECESSARIO SMETTERE DI FUMARE, MA SOPRATTUTTO, DI BERE.

AGOSTO

Le vacanze. CAPISCO CHE AL SOLITO NON HO UN BORRO. NESSUNA VACANZA.

SETTEMBRE

Compie gli anni mia madre. La vita riprende. Mi operano, mi tolgono un neo. Mi rimane una cicatrice enorme, ma tendenzialmente non avrò un tumore. Mi vedo cambiare. CAPISCO CHE IN QUALCHE MODO, PRIMA O POI MORIRO’. Ma la vera conquista è che non mi fa paura. Guardo la cicatrice, mi sembra un pesce… fino al momento in cui Giulia esclama: “sembra una figue”. Segue il silenzio.

OTTOBRE

Il mese della zucca. Con ottobre arriva una sorta di delusione amorosa. Inizio a sentirmi parte di una congiura. Possibile che non trovi qualcuno disposto ad amarmi? CAPISCO CHE FORSE ANCH’IO DOVREI AMARMI. Banale, un ever green della filosofia spiccia, ma così maledettamente difficile.

NOVEMBRE

Forte crisi in Danimarca, c’è del marcio. Tocco il fondo. Capisco che più in basso di così c’è solo da scavare. Tutto assume il colore della notte. CAPISCO CHE TANTO PIU’ LA NOTTE E’ SCURA TANTO PIU’ L’ALBA E’ VICINA.

DICEMBRE

Il mondo si riempie di lucine, cerco di coglierne l’essenza. Ho capito cosa voglio fare, e ho capito anche che devo rassegnarmi al passo dopo passo, perchè chi vi dice che potete volare vi sta dicendo una semi-stronzata. Certo, esistono indubbi casi di volo pindarico, poi c’è la concretezza del day by day.

Ho cambiato cover al telefono, ne avevo una nera, tremendamente essenzialmente, esponenzialmente seriosa.

Ho comprato una pochette rosa. Anche se continuo ad avere il timore reverenziale del rosa.

Mi hanno regalato una crema anti-age.

Ho visto il mio artista preferito. Cioè ho visto i suoi quadri, perchè lui, aimè ci ha lasciati da MO.

Aspetto che dicembre scorra, con le lucine, i panettoni, quella grandissima rottura di maroni dei buoni propositi. Aspetto che scorra con un neo in meno, una cicatrice a forma di figue (che comunque a me sembra un pesce) e un po’ di speranza. Che non avevo da immemore ed illo tempore.

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Sono arrivata alla fine. Ho scritto.

Io. Giubilo.

Ah, poi alla fine, ho smesso davvero di fumare.

Io. Sul piRellone.

DON’T LIKE GAY MARRIAGE?

DON’T HAVE ONE, PROBLEM SOLVED!

Dunque, è domenica sera. Sono le ore 20.02. Ho provato ad ordinare una pizza ma me la porterebbero alle 21.15 ed io non ho voglia di aspettare. Ho finito le sigarette e non voglio comprarle fino a domani perché so che tornerò ad essere cenere, ma vorrei evitare che succedesse in tempi brevi.

Non mi rimane che scrivere.
Dell’America abbiamo parlato, della mia vita sessuale pure e su Galliera Veneta abbiamo già detto tutto. Non ho un fidanzato e non sono dimagrita. Non mi resta che darmi al populismo. Ora, ho due argomenti: Checco Zalone o i finocchi.

Preferisco i finocchi!

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Dunque, finalmente abbiamo capito perché a Milano é stato costruito un grattacielo a cui hanno dato un nome che rappresenta ABBOMBA la nostra Italia. Noi abbiamo il Papa, la pizza, il mandolino, Renzi Patty Pravo e… IL PIRELLONE!

IL PIRELLONE è stato costruito per aiutare Formigoni a sparare cazzate. E quindi, poche ore fa, sul PIRELLONE, grazie a ritrovati della ricerca, perché in Italia si fa ricerca, una giunta di cervelli non in fuga, perché in Italia abbiamo cervelli non in fuga, ha scritto “FAMILY DAY”. Che era un po’ come scrivere “AFFANCULO LI FROSCI”.

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Ora, provo a reprimere la mia posizione filo-frocia e a scrivere qualcosa di intelligente mantenendomi sul neutro, o meglio usando il cervello più che il cuore. (ndr: STO RILEGGENDO E VI DICO GIÀ CHE NON CI SONO RIUSCITA!)

Io dico, dall’alto della mia ignoranza, che se il mondo va in una direzione, non vedo perché l’Italia debba andare all’opposto.

Considerato che il mondo evolve e che lo fa abbastanza velocemente, forse dovremmo provare ad adeguarci. Nel senso, se tutti riconoscono una buona pratica, una pratica civile, per quale minchia di motivo, noi italiani ci sputiamo sopra?
Se abbiamo accettato l’Europa e il dispotismo di Angelina Merkel, se ci siamo fatti andare bene la patente a punti e non fumiamo più nei locali, per quale astrusa ragione non riusciamo ad accettare che a qualcuno piacciano organi genitali simili a quelli di cui è portatore? BAH…

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Io credo che se stessi morendo in un letto di ospedale e qualcuno dovesse decidere per me, non vorrei che fosse mia madre, con la quale potenzialmente non parlo da anni. Vorrei che fosse la donna con cui mi sveglio la mattina, quella che mi fa il caffè, che mi sorride quando torno e mi lascia libera quando ho voglia di andarmene.
Se stessi per tirare le cuoia vorrei sapere che lo stato riconosce ciò che ho fatto, vorrei sapere di avere una famiglia e dei diritti, perché sarebbe proprio tanto bello se bastasse l’amore, ma l’amore a volte non basta. Non basta fuori da una sala operatoria, davanti ad un giudice o quando é ora di pagare le bollette.

E poi se lo stato riconoscesse, in qualche modo, l’amore omosessuale, forse anche i cittadini inizierebbero a farlo. E allora, potenzialmente, i finocchi sarebbero più felici e meno ragazzini si suiciderebbero perché bullizzati. Eh si, perché é facile fare la campagna contro il bullismo, ma é difficile ammettere che Marco e Luca si amano! Allora, in linea teorica, noi vogliamo un gran bene a Marco e Luca, e forse ci può stare anche bene che ogni tanto si diano dei bacini ma se Marco e Luca chiedono uno straccio di diritto noi accendiamo il Pirellone.

Quanto ai bambini, a dire il vero pure io mi chiedo se Marco e Luca possano crescere dei figli sani ma vedo che molte Terese e Giovanni hanno dato vita a delle teste di cazzo allucinanti. E vedo anche che delle teste di cazzo allucinanti hanno cresciuto creature meravigliose. Vedo figli di etero infelici e ho avuto la fortuna di vedere bambini adottati da gay perfettamente felici ed equilibrati.

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Ho vissuto in un paese in cui Anna e Giulia possono avere una bambina, la possono crescere e possono provare ad amarla! Io non ci credevo, ma poi l’ho visto, e vi assicuro che é possibile.
Noi non siamo pronti, è vero. Ma non eravamo pronti nemmeno alla patente a punti e al divieto di fumo. Noi, italiani, non siamo mai pronti ai cambi di direzione, agli investimenti in civiltà, a guardare fuori dalle mura. Eppure, oltre la pizza e il mandolino c’è un mondo, che va veloce, e va tutto nella stessa direzione. E ci sarà una ragione se é la STESSA direzione. Possiamo convenire sul fatto che fumare fa male, che i punti della patente tirano più di quelli dell’appendicectomia ma guai se pensiamo che i gay abbiano diritto ai diritti!

E allora io dico che sto dalla parte di tutte quelle persone che si amano e che hanno dei desideri. Sto dalla parte di quella bambina che in un giorno di maggio mi ha detto “ my daddies made pancakes”, sto dalla parte di quel maestro di quarta elementare che in una scuola cristiana ha detto “I am gay”, e sto anche dalla parte di chi si sente offeso da Formigoni che va alle riunioni di CL accompagnato dal suo “COINQUILINO”.

Io sto dalla parte di chi sta fuori dalla sala operatoria e dopo anni di caffè, sorrisi e litigi non ha diritto ad un saluto. Sto dalla parte di chi é spaventato dall’idea che una coppia gay cresca un figlio ma sto anche dalla parte di chi preferirebbe due padri piuttosto che due etero testa di cazzo. Sto dalla parte di chi decide di aprirsi al mondo e di andare in una direzione che hanno preso in molti. Sto dalla parte di chi non é nato etero anche se auspico sempre all’eterosessualità degli uomini fighi!

Io. sto dalla parte di chi, ad amarsi ci prova.

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E dopo un bel po’ di retorica, con un pizzico di rabbia continuo a provare a non andare a comprare le sigarette, nel frattempo mangio un cracker.

Io. Voglio essere stesa.

Ho appena letto un post su Facebook.

Il post è stato scritto da un mio caro amico. Nel post lui dice di amare un certo DB, di averlo amato, e che lo amerà per sempre.

Se il post fosse stato scritto dal mio gioioso amico F., io avrei pensato ad un errore. Avrei ritenuto che la ‘B’ fosse da sostituire con ‘P’ che sta per ‘penetration’, dove ‘D’ sta per ‘double’. Non so se è chiaro il concetto ma per i non esperti basterà una veloce ricerca su Google… Astenersi anziani e persone facilmente impressionabili!

Comunque, il mio amico ‘non F’ scrive una cosa incomprensibile ed io, pensando di state serenamente invecchiando, ipotizzo che ‘DB’ sia un cantante, vecchio o nuovo, a me sconosciuto!

Sta di fatto che commento lo stato e ‘non F’ da così tanta importanza alla cosa da scrivermi con una celerità che neanche Bolt prima del carcere aveva mai raggiunto.

In men che non si dica passiamo da Facebook a whatsapp. ‘Non F’ mi spiega che DB è un baldo giovine di cui ci siamo occupati in passato. Un uomo aitante, affetto da frocerie (leggi alla francese) davvero acuta. Due metri di muscoli e pallavolo, uno che salta la cavallina e non solo.

Quello che mi colpisce è che ‘non F.’ Scrive di essersi ‘ZERBINATO’ a lungo senza fare mai punto.

Io ribatto prontamente ‘welcome to my life’!

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Allora, io, oggi, vi volevo parlare delle cose che ho fatto per amore ZERBINANDOMI a livelli galattici. Quasi implorando il CALPESTAMENTO, STUPIDA ME!

Vi volevo parlare della ‘non dignità’ che colpisce il soggetto zerbino, quel soggetto che si auto stende di fronte a due addominali o a una bella parlantina.

Per conquistare l’oggetto del desiderio (che ogni volta credo essere l’uomo della mia vita e il futuro padre dei miei figli) io mi sono stesa come un panno al sole, come i cachi a maturare, come la frolla della crostata della nonna.

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Ho sopportato mutande contenitive che una volta tolte mi riportavano bruscamente allo status di cotechino. E forse è per questo che l’amato amante poi non richiamava.

Ho sopportato ex fidanzate, mogli, suocere, aspiranti zerbine e colleghe di lavoro molto invadenti. Che poi, se la tua ex ti scrive alle 2 di notte mentre io cerco di accedere alle appendici del tuo corpo, forse non è tanto ex. Ma io le ho comunque sopportate, in nome dell’amore che mi sono costruita, immaginata e per forza di cose, dimenticata.

Ho sopportato aliti pesanti perché poi alla fine può capitare.

Ho sopportato, udite udite, eiaculazioni precoci, riponendo estrema fiducia nei preservativi ritardanti quando invece ci sarebbe voluto Padre Pio. Altro che i preservativi ritardanti!

Ho sopportato il ‘ci vediamo dopo calcetto’ e fatto chilometri ad orari in cui io di solito sono già in piena fase REM, perché poverino, è giusto che abbia i propri spazi!

Ho sopportato messaggi di merda pieni di sarcasmo a volte acido, tipici di chi sa di averti alla porta. AZZERBINATA! Stesa come i tappetini di Natale, con le renne che fanno “YO-YO”.

Ho sopportato i tacchi alti perché quelli sfinano e magari così mi trova più carina. E mi sono ‘ciucciata’ una tallonite da paura mentre lui si è presentato coi pantaloni del calcetto di cui sopra. Ma io comunque, azzerbinatamente entusiasta, sul momento, l’ho trovato attraente.

Ho sopportato le assenze, i silenzi e poi i ritorni pieni di entusiasmo per dirmi ‘mi sposo’. E io, zerbinerrima, invece di urlare MAVAFFANCULO, ho pianto. E ho mangiato cioccolata che dopo essermi rimasta 6 secondi in bocca si è fermata per 6 mesi sulla coscia.

E poi ho sopportato quelle colonie da uomo pesanti, quelle che ti si attaccano al profumo di Dior da 40 euro a spruzzo. Quelle che lo rovinano, snaturano e sopraffanno. Quelle dei deodoranti economici antitrasudanti che non bisognerebbe mettere nemmeno ai funerali celebrati a luglio, alle 3 del pomeriggio.

Ho scusato l’oblio ‘perché poverino, è molto impegnato’ e c’ho perso del sonno ad immaginare come sarebbe stato. Se lui fosse come io vorrei.

Ho vissuto in attesa pensando che gli alieni lo avessero rapito. Per poi realizzare che se hai 1000 minuti gratis, 1000 messaggi e 200 giga… se non mi caghi è perché non vuoi! Mi sono chiesta come potesse essere possibile che lui non mi pensasse, e non ho ancora travato una risposta perché ogni volta torno a credere agli alieni.

Ho comprato regali mai ricambiati e adesso penso che con quei soldi forse potrei farmi un viaggio con le amiche, o comunque una depilazione permanete che probabilmente mi soddisferebbe più a lungo di qualsiasi uomo. Perché a volte la depilazione è per sempre! Come i diamanti per chi non se li può permettere!

zerbino cuore

E allora io dico, che ho quasi 30 anni, e chi mi legge lo sa. E dico anche che sono una ragazza molto fine. E in virtù di ciò, affermo con una certa sicurezza che mi sarei anche UN PO’ ROTTA I COSIDDETTI.

Io dico che la modalità zerbino, dopo averla praticata per anni, risulta entusiasmante tanto quanto un convegno di Salvini.

Io dico che vorrei iniziare un periodo di A-zzerbinaggio, dove la A ha funzione privativa.

Dico che credo di meritarmi un uomo a cui piacciano le mutande poco contenitive, o a cui perlomeno piaccia io. Uno che mi scriva per primo, che usi un profumo decente e che anche se impegnato un po’ di tempo lo trovi. Uno che al calcetto preferisca le cavalcate amorose, uno che cancelli il numero dell’ex o perlomeno della suocera.

Io, con un grande atto di coraggio, dico basta allo zerbino, perché alla soglia delle 30 primavere IO. NON HO PIÙ VOGLIA DI STENDERMI. IO. VOGLIO ESSERE STESA

DALLO ZERBINO AL RED CARPET

Unknown

Io. E l’amore (in ascensore).

A volte, lo ammetto, mi vergogno della mia posizione filo americana, che poi non é filo americana. É più “entusiasto – americana”. Perché io in America mi sono sentita a casa davvero, come forse non mi sono mai sentita in Europa, (ma la pippa sulla mia non appartenenza al continente e bla bla bla… questa volta me la risparmio!)

Di New York mi piaceva quasi tutto. Direi che non amavo il clima, i grassi saturi e gli uomini circoncisi. Per il resto davvero, non mi posso lamentare.

ny

La cosa che mi piaceva di più era far l’amore in ascensore. 

Gli ascensori a NY sono enormi. Tanto enormi che quando sono tornata a casa, il mio vecchio ascensore, quello che aveva trasportato il mio deretano da terra al terzo piano per anni, quello fedele, quello di una vita, tipo ragazzo della porta accanto, mi sembrava una “box”. Guardandolo ho pensato: “sei solo una stupida scatola”, che non basta più per contenere me e le mie ambizioni. Eppure lui mi ha fedelmente aspettata, per due anni, con le pareti azzurre e lo specchio sporco.

Nella mela, gli ascensori dei palazzi signorili sono generalmente molto curati. Spesso hanno la moquette, i tasti laccati in finto oro e i numerini scritti in maniera elegante, con caratteri ricercati. Stanno tutti in fila. Rigorosi come soldatini, sempre pronti a portarti dove tu vuoi. L’ascensore si chiude e pochi minuti dopo sei ad un altro piano, che spesso nei grattacieli, vuol dire un altro mondo.

view

Ci sono anche gli ascensori di servizio. Quelli che prendono i manutentori dei palazzi, e le signore in pre – menopausa. Quelle troppo impegnate per fare un figlio, quelle che hanno deciso di comprare un cane. (Tendenzialmente un barboncino  pelosino dud du dadadà). Gli stessi ascensori li prendevo anch’io quando andavo a fumare di nascosto. Quando sopportavo che mi si gelassero le orecchie in cambio di un po’ di nicotina. Me ne stavo nascosta, avvolta in un piumino che poi dovevo esondare di un profumo economico, uno che nemmeno mi piaceva, ma che costava solo sette dollari.

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E poi ci sono gli ascensori freddi e grigi dei palazzoni di Harlem. I “condos” in questa zona, sono tempestati di mattonino rossicci. Le facciate sono tutte uguali: ricordano il calore della gente, la 125 che sa d’incenso e gli accenti che si mischiano tra il rap e l’Africa, sepolta sotto metri di neve. Gli ascensori sono metallici, mi ricordano la sala operatoria, sono freddi, in stridulo contrasto con gli odori che li riempiono. Le mamme cuciano ancora ad Harlem.

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E alla fine c’era il mio ascensore, quello che per due anni ha sostituito il box azzurro. Era fatto di legno pregiato, attentamente verniciato. Sembrava che una mano esperta avesse accarezzato ogni venatura di quella scatola marrone scuro. L’ascensore mi aspettava tutte le sere, quando rientravo e premevo sedici. Perché io abitavo al sedici, e sei più uno fa sette, il mio numero fortunato. Mentre aspettavo che la scatola salisse ci pensavo spesso a questa cosa.

E poi pensavo alle “sliding doors”: a ciò che sta dietro alle porte aperte. A cosa sta nelle porte chiuse. Ma questa, tutto sommato, é un altra storia.

sliding

Ecco, comunque io volevo raccontarvi di quando facevo l’amore in ascensore.

Mi capitava spesso, ma non troppo. Direi il giusto. Quelle due o tre volte a settimana che non fanno morire le coppie attempate.

Mi capitava all’improvviso, quasi a ricordarmi che la vita sfuggiva al mio controllo molto più spesso di quanto io lo permettessi.

Mi succedeva con i signori cinquantenni ancora molto fighi, troppo fighi per chi deve ancora toccare gli “enta”.

Mi capitava con i porta pizze, con i ricchi dall’aria boema e le giacche marroncino a costine. Mi capitava con chi andava veramente a fare l’amore, mentre io premevo sempre e solo sedici, convinta che quel pigiare fosse la manifestazione quotidiana del fatto che avevo avuto una gran botta di culo!

Mi capitava anche di fare l’amore fedifrago con chi usciva dal Lincoln Center. Baldi giovani della finanza accompagnavano a casa le loro mogli scosciate, generalmente coperte da drappi rossi, scarpe col cinturino alla caviglia e capelli biondi, lunghi e sciolti. Le invidiavo, allora sorridevo ai loro mariti e mi sembrava di rapirli per un secondo.

pretty

Fare l’amore con gli occhi dura in genere un istante. Guardi l’altro, timidamente. Poi il pudore diventa spudorato e tutto succede in una frazione di secondo, e la vita va più veloce del tempo, più veloce di te che stai lì a guardare. Solo guardare. Perché uno sguardo non è mai peccato.

É l’ attimo in cui alzi gli occhi, lo vedi, e capisci che non vuoi rinunciare a ciò che vuoi. Perché é ETERICAMENTE SEMPLICEMENTE MALEDETTAMENTE raggiungibile. Sí, é facile e non deve essere per forza ricambiato.

Non c’é corpo, ne parola, ne spirito, e tutto é in perfetto equilibrio con i tuoi desideri. C’é imbarazzo, c’é la difficoltà di definire uno spazio tra due corpi che in una scatola non hanno spazio. Allora tanto vale guardarsi, e toccarsi e incendiarsi, per poi concludere con un “please, you first”.

Finisce cosí l’amore in ascensore. In pochi secondi di passione forse univoca, e una cavalleria che nei letti non ci si aspetta più.

Io. Mi siedo al sole e abdico.

Dunque, io ho un problema con tutto ciò che è a lungo termine.

“PER SEMPRE” PER ME, È UN PÒ COME LA MORTE NERA.

Io non ho tatuaggi, ho solo smagliature.

Io non ho un fidanzato, ho solo avventure.

Io non ho un figlio, ho solo nipoti. 

Io non ho un contratto di lavoro. Io sono poco credibilmente una “FRI LENS”.

Eppure, da un pò di tempo mi accorgo che ci sono cose che sono “per sempre”.

FOREVER. (Come la canzone delle Spice Girls).

Il 26 maggio 2015 ho attraversato un ponte a bordo di un’auto nera guidata da un signore di cui non ricordo il volto. Il cielo era azzurro e New York iniziava a scaldarsi. L’aria era pesante di quell’umidità che se non potete andare a New York troverete facilmente nel comasco.

É paradossale come io ricordi di non ricordare. Io, ero seduta su quel sedile comodo, affondavo il mio culo appesantito dai cupcakes e dai fiumi di vodka. Me ne stavo seduta col telefono in fiamme, ebete di un sorriso che non so da dove arrivasse.

Una decina di ore più tardi ero in macchina con una delle mie più care amiche. Guidava, mentre io, stanca e orfana di quel sorriso beota, tornavo a casa. Guidava col suo pancione di sei mesi, tondo e perfetto. La vita era andata avanti, mentre io, forse, mi ero presa una pausa. O forse, avevo iniziato a vivere davvero, a pieni polmoni, e chissenefrega se respiravo smog. Almeno respiravo.

baby

Sono tornata in Egitto, con la sensazione che il mio essere “ebrea” fosse finito. C’avevo provato e un pò mi viene da piangere mentre scrivo e penso di aver perso.

Eppure sono tornata a casa.

Anche se io, tutto sommato, non so più dove sia casa.

Sono nell’unico luogo che è “per sempre”. Il luogo in cui, che mi piaccia o no, io sono cresciuta.

E allora oggi, vi descrivo quello che ho intorno, come facevo a New York.

Anche se già lo conoscete, io vi racconto come lo vedo.

Vivo in un luogo in cui non mi posso perdere. Non ho bisogno della cartina, dove ci sono i monti c’è il nord. Non c’è UP o DOWNTOWN. C’è un monte enorme, sempre alle mie spalle. Quand’ero piccola mi mettevo sotto al davanzale della camera di sinistra, quella al secondo piano della casa patronale in cui sono cresciuta. Mia nonna indicava il nord ed io guardavo le luci. Il monte sembrava un abito da sera, tempestato di diamanti, ed ogni luce era un vita. Io ci arrivavo a malapena a vedere fuori, eppure rimanevo immobile, ogni sera, prima di dormire. Provavo la stessa sensazione a New York: guardavo i grattacieli ed ogni lume, anzi, ogni led, era una storia.

ombra

Vivo in un luogo in cui ci sono i Bar, quelli in cui i vecchi vanno a giocare a carte, bevono bicchierini di vino da 1 Euro e bestemmiano platealmente. Vivo dove il pavimento è di marmo e il bancone sporco di gocce di vino bianco di scarsa qualità. Vivo dove entro in un locale e la gente mi conosce, sa che sono l’Americana, ed io mi sento accolta ma esiliata. Vivo dove ci sono ancora sedie di legno impagliate, quelle che quando ero piccola mi si conficcavano nella carne, ed era troppo tenera la mia carne. Vivo dove la gente parla ancora, sempre delle solite cose, ma parla. E a me piace ascoltare.

sedia

Vivo in un paese di divieti, di limiti. Perché a noi ci piacciono le regole. E ci sto stretta, come nei vestiti di due anni fa, di prima di partire. Vivo nei divieti di sosta, nelle proprietà private, negli spazi costruiti col sudore dei muratori che hanno fatto tutto dal niente. Vivo un pò nell’ombra di una generazione capace del miracolo industriale che non appartiene più a noi giovani.

regole

Vivo nei portoni che sono ovunque. Spesso mi chiedo se siano mai stati aperti quei portoni che a volte mi sembrano sigillati. E vivo nei piccoli borghi, nelle strade di ghiaia. Quand’ero piccola camminavo a piedi nudi sul ghiaino, e mia nonna mi urlava che mi sarei rovinata i piedi se non avessi smesso. Aveva ragione, ho i piedi cavi, ma quella sensazione di dolore che non faceva male era stupenda e se il prezzo da pagare è il piede che ora fa male, va bene comunque. Come le vertigini guardando giù dal Top of the Rock, come l’oscillazione dei grattacieli che si sente solo se la vuoi sentire.

portone

E poi vivo nelle chiese, in cui religiosamente non entro. Vivo nei loro portoni, perché quando sono aperti a me sembra di stare meglio. Mi sembra che ci sia un luogo franco anche per noi esuli. Mi sembra che alla fine, se proprio mi va male, potrò andare in chiesa, perché dove vivo io è pieno di chiese. Ci sono quelle dove si sposano le mie amiche, dove le vedo avanzare con vestiti pomposi a ricordarmi che mentre io non c’ero la vita è andata avanti. E poi ci sono quelle arroccate con le vecchie che portano il lutto ed erano felici della messa in latino. Ci sono i preti di campagna, e l’offertorio coi miei venti centesimi perché il Vaticano non ha bisogno di me.

chiesa

E poi ci sono io, con la mia testa confusa. E mi piacerebbe fare come Pessoa. Vorrei sedermi di fronte alla pasticceria di Galliera Veneta e stare a guardare il mondo che va. Questo micro mondo in equilibrio tra il Natale, la Pasqua e le mezze stagioni che aimè, non esistono più. Vorrei essere immobile, con in testa un cappello, con la mano del poeta e l’olfatto vivo, per sentire il profumo dei dolci, alle nove di domenica mattina, quando le campane suonano, ed inizia la messa.

“SIEDITI AL SOLE. ABDICA E SII RE DI TE STESSO”.

PESSOA

Io. Ho l’ovaio pesante.

Oggi pensavo che ho quasi 30 anni.

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In linea di massima ne ho ancora 28 ma se ‘la strada è breve dal casso al cassonetto’ (cit di una famosa canzone italiana), figuriamoci dai 28 ai 30.

Una volta una mia amica mi ha detto che sarò una splendida 30enne ed io, che mi sono sempre sentita una cozza isterica ed impacciata, ho iniziato ad attendere il compimento dei 30 anni con ansia.

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Di fatto, già da un anno dico che ho 30 anni, così mi sento più figa. È una roba meramente psicologica, ma funziona. Almeno credo!

Ieri sera però, a bordo della mia Polo ormai agonizzante, ho riflettuto un pó sull’avere 30 anni, oggi.

Prima di tutto ho pensato agli ormoni. Sembra che a 30 anni cambi tutto, a partire dagli ormoni. I miei sono impazziti, non nel senso che mi farei anche quelli che vomitano negli angoli delle discoteche, più nel senso che mi sono venuti gli acciacchi dell’età! Il medico mi ha guardata e mi ha detto: SIGNORINA GRAVIDANZA! A quest’età per risolvere i problemi ci vuole la GRA-VI- DAN- ZA (ed io ho pensato: perché a tutte le altre date la pillola e a me consigliate la fecondazione? Posso avere almeno quella assistita, mi fa meno paura!).

Ho improvvisamente realizzato che i miei ovuli non sono più a lunga conservazione.

Di fatto, spalo a 4 mani verso la menopausa.

E un pó ho avuto paura.

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L’ovulazione non mi è mai piaciuta. Le endorfine, la serotonina, e tutte quelle sostanze non sono mai state mie alleate: di fatto IO TRASFORMO I DISAGI IN CARBOIDRATI (in un mondo di donne LOW CARB!).

In pratica io mangio prima del ciclo, poi durante il ciclo e pure mentre ovulo! E poi, se tipo al decimo giorno del mese mestruale, a me viene voglia di mangiare (E A ME VIENE VOGLIA DI MANGIARE!!!), io dico che forse sto per ovulare, allora mi devo preparare. E quindi mangio di nuovo. Non negare al corpo ciò di cui ha bisogno!

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Comunque, lasciando il marchese e tornando ai  a quasi 30 anni, io vi dico che le mie amiche sagge, quelle un pó mamme e un pó sciamane, hanno cominciato a guardarmi con sguardo amorevole e dirmi che ‘è normale fare lo SCREENING, anzi è ora!’.

Oddio lo screening, che cos’è?

Una maschera di bellezza? Lì ho avuto davvero l’ansia, soprattutto per la comparsa dell’occhio a triglia compassionevole, quello di chi sa esattamente ció di cui sta parlando.

Le mamme sciamane mi hanno avvisata. Adesso so’ cazzi!

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Poi c’è da gestire lo sguardo pesante della generazione di mamme, zie e cugine che a 30 anni avevano già figliato 2 o 3 volte. Avevano un lavoro e già fatto pace con le smagliature.

Care signore, come ve lo spiego che la lotta con la cellulite non mi ha ancora permesso di trovarmi un uomo? L’unico che frequento con costanza è il barattolo di Somatoline! I messaggi li ricevo dalla Tim che mi ricorda l’imminente esaurimento del credito e che sono bella me lo dice solo mia nonna.

No, non credo che andró a convivere presto!

Mi rallegro del fatto che a 30 anni voi aveste già una situazione stabile ma al momento, la mia vita, è il cubo di Rubik e io in logica facevo discretamente cagare!

stay single

Poi uno dice, vabbè che hai l’ovulo pesante, vabbè che non vai a convivere ma almeno vedrai qualcuno. Ce l’avrai un fidanzatino!!!

Ecco, a 30 anni cominci a guardare gli uomini in maniera diversa. A 20 quello che ti interessava era di essere violentemente sbattuta sul muro, con tutte le accezioni che l’uso di ‘sbattuta’ porta con se. A 30 chiedi di  poter fare un tour della casa, poi ti aspetti che lui stappi il vino, vorresti parlare, confrontarti sui massimi sistemi,

capire se lui, in effetti, andrebbe a riprendere i maró.

Questo complica le cose. Almeno a 20 volevate tutti e due usare il verbo ‘sbattere’. A 30 tu ti interroghi sui fenomeni fisici che regolano la sua erezione mentre lui ragiona in maniera binaria: CULO – TETTE.

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Allora uno si butta sul lavoro.

ALLORA UNO SI BUTTA!

Diciamo che mi aspettavo fosse un pó più semplice. Mi aspettavo di avere le idee più chiare per poter chiedere all’Universo ciò che desidero con una certa lucidità. La verità è che a 15 anni ero più sicura, focalizzata, forse “PUTTANA, di sicuro OTTIMISTA E DI SINISTRA”. A 30 anni lo ammetto, mi sento un pó persa o forse solo più esperta, meno accondiscendente. A 30 inizi ad avanzare richieste, a dire più “no”, ad avere una coscienza e il braccio molle che non ti fa mettere la canottiera a spallina stretta! A 30 anni smetti di fumare ed inizi a ragionare (e a me le sigarette piacciono molto più che i ragionamenti!). A 30 vai a ballare e porti a spasso la cozza che eri a 15 pensando che alla fine, le cozze, sono anche buone!

A 30 anni ci sei, ci sei forte, TU, con gli ovuli in scadenza, le smagliature irrisolte, le zie dallo sguardo pesante e molte domande che a 15 avevano risposte chiare!

Poi ci sono le tette, e quelle a 30 anni iniziano ad essere come Pompei: in caduta libera, e senza tutela.

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